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CULTURA

Cento anni fa

24 maggio 1915, l'Italia nella Grande Guerra. "Un conflitto che gran parte del Paese non voleva"

Dieci mesi dopo l'inizio della Prima guerra mondiale, l'attacco contro l'Impero Austro-ungarico. Lo storico Lucio Fabi a Rainews.it: "L'Italia non era né propensa né preparata, ma il governo e il re decisero l'intervento"

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di Andrea Bettini
Venivano in gran parte dalle campagne. Erano giovani, scarsamente addestrati e si lasciavano alle spalle la famiglia, la casa, la propria normalità. Il 24 maggio 1915 quasi mezzo milione di soldati italiani cominciò a marciare verso il confine con l’Impero Austro-Ungarico, ex alleato e ora nemico da combattere. Anche per l’Italia iniziava la Grande Guerra, un conflitto sanguinoso che era già in corso da 10 mesi e che stava falciando un’intera generazione. Uno scontro armato che la maggior parte della popolazione non voleva.
 
Lo storico: “Paese impreparato e contrario al conflitto”
Alla fine, dopo un lungo dibattito, avevano deciso il re Vittorio Emanuele III e il governo di destra guidato da Antonio Salandra, che a fine aprile avevano firmato un patto segreto con Inghilterra, Francia e Russia: compensazioni territoriali in cambio dell’entrata nel conflitto. “Nelle settimane precedenti alla dichiarazione di guerra all’Austria del 23 maggio si generò un forte battage propagandistico per preparare il paese a entrare in guerra, un paese che non era né preparato né propenso a entrare in quel grande conflitto mondiale che si rivelò una carneficina”, dice lo storico triestino Lucio Fabi.
 
Conseguenze sottovalutate
Erano contrari alla guerra i cattolici, non ne volevano sapere i liberali di Giolitti. Eppure ebbe la meglio la componente interventista, minoritaria ma più unita, sostenuta da intellettuali come D’Annunzio e capace di riempire le piazze. Di certo, le possibili conseguenze erano state sottovalutate. “Nonostante il conflitto durasse da quasi un anno, si pensava che in pochi mesi la guerra sarebbe finita, non che dovesse durare anni e anni terribili – continua Lucio Fabi -  Forse il generale Cadorna, che era il capo dell’esercito, aveva ben presente la situazione delle sue armate. Sapeva che un esercito mobilitato in fretta e composto da soldati in gran parte contadini non addestrati per una guerra moderna non poteva agire in modo efficace. Tuttavia il governo spinse per l’entrata in guerra”.
 
Le prime fasi dell’attacco
In pochi giorni centinaia di migliaia di soldati italiani attraversarono il confine con l’Austria-Ungheria e invasero territori appartenenti all’ex alleato. “Nei primi momenti il superamento del confine avvenne in un clima quasi di festa – racconta lo storico triestino – Fu comunque un’occupazione non indolore, che all’inizio provocò anche un centinaio di fucilazioni di civili considerati spie o conniventi con il nemico”.
 
Il dramma della guerra di trincea
Nel giro di poche settimane, le posizioni degli eserciti si stabilizzarono. Anche sul fronte italiano ebbe inizio la tremenda guerra di trincea. “Fu una carneficina – prosegue Lucio Fabi - Solo sul fronte dell’Isonzo, dal giugno 1915 all’estate 1917, prima di Caporetto, ci furono non meno di 350mila morti fra italiani e austroungarici”.
 
La guerra lunga dei territori ex austriaci
Se per l’Italia la guerra iniziò il 24 maggio 1915, per molti italiani il conflitto era già in corso da dieci mesi, dal 28 luglio 1914. “Svariate decine di migliaia di soldati trentini, triestini e friulani combattevano con l’esercito austro-ungarico e andarono a morire in Serbia e in Galizia – racconta Fabi - La gran parte dei territori ex austriaci visse un anno di guerra e miseria molto forte, tanto che a Trieste la popolazione passò da 250mila a poco più di 100mila abitanti. Dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria del 23 maggio, si mossero gruppi di patrioti austriaci e ci furono veri e propri tumulti popolari che distrussero dei simboli italiani. La gente, immiserita da quasi un anno di conflitto, attaccò e saccheggiò i negozi degli italiani, che erano molti”.
 
Drammi e ricompattamento dello spirito nazionale
L’eredità della Grande Guerra si fece sentire negli anni immediatamente successivi, ma per alcuni aspetti arriva fino a noi. “Certamente non produsse nulla di buono perché successivamente il paese entrò quasi subito nella catastrofica dittatura fascista – dice Lucio Fabi – L’esperienza della trincea e della guerra fu dolorosissima e lo fu anche per chi rimase a casa: famiglie, vedove, orfani. La prova che il paese dovette sostenere fu enorme. Si può dire che proprio in trincea, nel dolore, nella morte e nel sacrificio, avvenne un compattamento dello spirito nazionale tra soldati che conobbero i loro simili provenienti da altre regioni. Accadde soprattutto dopo la disfatta di Caporetto, che ricompattò il paese lungo le linee del Grappa e del Piave contro un nemico che lo aggrediva, mentre prima era l’Italia ad andare all’aggressione. Su quel fronte il soldato italiano capì di dover combattere in difesa della patria della casa e della famiglia”.  
 
Opzioni e scelte quasi obbligate
Fu tutto sbagliato? Anche a cento anni di distanza gli storici non sono netti nel giudizio. “Abbiamo l’esempio della Svizzera, che è rimasta neutrale e sicuramente ha risparmiato al suo popolo una serie immane di sacrifici – prosegue Fabi - Si può dire che la guerra fu voluta da una classe sociale ben precisa, che poi grazie al conflitto si arricchì. Probabilmente in quel contesto internazionale l’Italia non sarebbe però potuta rimanere neutrale. In qualche modo avrebbe dovuto schierarsi. La classe dirigente entrò in guerra per restare nel contesto delle grandi potenze internazionali, quindi non poteva tirarsi indietro”.
 
“Superare la guerra nel ricordo della sofferenza”
Tra mille sfumature, non è facile insomma dire se avevano ragione interventisti o neutralisti. “Non è semplice soprattutto oggi: i nemici di allora sono i nostri compagni di strada dell’Europa unita – conclude Fabi – Milioni di persone visitano i luoghi di guerra dove combatterono e morirono i loro nonni e i loro bisnonni. Quella guerra deve essere superata proprio nel ricordo della sofferenza, dell’inutile strage, come aveva detto allora Papa Benedetto XV e come ha ripetuto Papa Francesco a Redipuglia pochi mesi fa”.